Salita



Gli Appennini nascondono un sentiero tortuoso e impervio, tra rovi, sassi, rocce, folti boschi e cascate. È un percorso per famiglie, forse anche breve, ma in realtà pochi lo completano.
La fatica si fa sentire sin da subito, il sudore ti incolla lo zaino alla schiena e i polpacci urlano per il dolore. Ogni volta che puoi ti fermi, bevi, prendi fiato, ammiri il paesaggio circostante. Stai salendo – ma non abbastanza. Hai percorso già qualche chilometro, ma la strada non è ancora finita: e la salita si fa ancora più salita. Stai per desistere. Ci pensi a lungo, cerchi la cima – ancora invisibile - poi la valle – che ormai è scomparsa – e ci pensi ancora: mi spoglio e faccio una doccia sotto le cascate gelide. Oppure torno giù, perché ho fame, ho sonno, voglio lavarmi.
Ma sai che se ti fermi proprio in quel punto e torni giù, un vago senso di insoddisfazione ti braccherà per tutto il resto della giornata, insinuandosi nell'ingiusto pasto, nell'immeritata immersione nella vasca da bagno e persino nel sonno – perché, seppur stanco, sai che quella non è una stanchezza completa.
E, allora, riprendi il cammino. Cammino è una parola troppo semplice: riprendi l'arrampicata, perché procedere, stavolta, significa complicare le cose - e mangi la strada non solo con i piedi, ma anche con le mani. Dai che è quasi fatta – pensi. E senti che più cammini, più ti avvicini al sole, più sei solo. Ti guardi indietro e gli innumerevoli e casuali compagni di viaggio che calcano quei sentieri se ne sono già tornati indietro, noncuranti dell'immeritata doccia e del sonno non troppo stanco.
Dai che è l'ultima salita. Il sole è così forte che pur tra gli alberi riesce a bruciarti la pelle e i ciottoli sono così bianchi che riflettono la luce come specchi.
Dai – è l'ultima salita. È l'ultimo crocevia di alberi prima di arrivare. È l'ultima scarpinata prima di.
Prima di.
E nemmeno ci pensi più alla fatica quando tra gli alberi si apre una minuscola pianura. E in mezzo alla pianura, lambita da un bosco, sorge una chiesa. Non è una chiesa come le altre. Non è una chiesa tutta marmi e stucchi e colori e giochi geometrici. È una chiesa tirata su con dei conci bianchi e mal sbozzati. Un piccolo portico per ripararsi dal sole. Una sola campana, in cima, a dirci che siamo proprio di fronte ad una chiesa. Non è molto chiaro quando sia sorta. Qualcuno la vuole costruita nel nono secolo, qualcun altro nel tredicesimo. Be', poco importa. Quando sei lì in cima al mondo, in totale solitudine, lontano dai rumori dell'umanità, di fronte ad una minuscola chiesa che sembra un'artistica roccia opera della Natura – be', nulla ha importanza. Significa che qualcuno ha fatto quello stesso percorso tortuoso in epoche ben più difficili. Significa che anonimi architetti e anonimi operai hanno portato sulle spalle mattone dopo mattone fino a quasi milleduecento metri sul livello del mare, per costruire qualcosa che desse conforto e ristoro ai pellegrini e alla gente del posto.
C'è un fascino unico in quelle pietre, in quelle forme semplicissime e lineari. C'è il gusto per la stordente perfezione della natura e per la geniale imperfezione dell'uomo. C'è, in quella chiesetta silenziosa e solitaria, tutto il mistero di quando Uomo e Natura tornano a compenetrarsi come alle origini.
Quando sei lì e contempli il miracolo, ti senti come non mai vicino a quei piccoli uomini che, in fila – me li immagino – in salita, uno dietro l'altro, dopo aver bevuto acqua di sorgente, hanno lasciato una loro traccia nel mondo e nella storia – e magari qualcuno di loro neppure l'ha vista la posa dell'ultima pietra. Nel silenzio di oggi, ascolti un po' i clamori di quel lontanissimo passato in cui uomini come noi e con meno possibilità di noi hanno fatto qualcosa di ben più grande di noi.
Di fronte ad uno spettacolo del genere, è quel connubio inscindibile, quella dolorosa e fantastica equazione, di Fatica e Bello a darti la soddisfazione più grande. Aver massacrato polpacci e polsi per godere di una fantastica visione – quasi un'epifania del divino o del mondo o del senso ultimo delle cose. Cercare instancabilmente la vetta invisibile tra gli abbagli del sole – o desiderare di porre l'ultima pietra della chiesa. Fatica e Bello sono lì, inscindibili, a dirti che già faticare è di per sé bello, purché sia fatto con costanza e coerenza, anche laddove la vetta sia lontana – se non irraggiungibile.  

Immagine: Egon Schiele, Torrente di montagna, 1918

Commenti

Sembra la mia vita. O quella di chiunque. Il che non è poco, con i polpacci elastici e la schiena dritta che richiede. Sul senso della chiesetta ci sto lavorando. «Fatica e Bello»: costante universale, frattale impervio ma interessante. Appennino, appunto. Ora, chissà perché, mi vengono in mente i sette nani: «Ehi oh! Ehi oh!» :) Grazie per la gita, buone produzioni.