Smetto quando voglio

Anno: 2014 - Nazionalità: Italia - Genere: Commedia - Regia: Sydney Sibilia 

Smetto quando voglio è la rinascita del cinema italiano: un regista giovane, un film che parla dei nostri tempi, un'opera attenta alla forma. E il gioco è fatto.
Smetto quando voglio è un manifesto generazionale, sia a livello sociale che cinematografico.

Un gruppo di ricercatori dalle menti brillanti e geniali, sbattuto fuori dalle università, decide di impiegare le proprie capacità acquisite in anni e anni di studio in un'attività criminale tra le più redditizie: lo spaccio di droga.

Nelle mani di un altro regista italiano, questo plot sarebbe diventato altro, sarebbe potuto essere l'ennesimo revival neo-neorealista, con quella spocchia intellettualoide e talvolta incomprensibile che ha tolto energie al cinema italiano. E, invece, Sydney Sibilia, classe 1981, esordiente, non spreca l'occasione. E fa di questo plot una vera bomba. Capisce, soprattutto, che per parlare della realtà il realismo non è più sufficiente – almeno per il cinema italiano. Anche per parlare della realtà – soprattutto per parlare della realtà – occorre utilizzare il paradosso. Chuck Palahniuk lo ha detto, qualche tempo fa, nel corso di una chat: prendo un problema e lo estremizzo, lo rendo paradossale per analizzarlo, ridimensionarlo e metabolizzarlo. Sibilia fa altrettanto, dimostrando una grandissima maturità nel maneggiare il materiale cinematografico. E non si cita Chuck Palahniuk a caso: è chiaro che Sibilia si sia imbevuto di tutto ciò che la cultura ha saputo darci negli ultimi venti anni. E, francamente, negli ultimi venti anni la produzione culturale – da quella più sperimentale a quella più pop - non è stata appannaggio dell'Italia. In Smetto quando voglio si leggono impressioni di ogni sorta – un'eco di Breaking Bad, dialoghi tarantiniani, fotografia all'evidenziatore di alcuni tra i lavori più psicotropi di Danny Boyle



E potrebbero essere trovati di sicuro altri riferimenti. Tuttavia, il lavoro complessivo appare del tutto originale e l'elemento autoriale e personale rende il film unico, senza aggrapparsi a citazionismi e scopiazzature e riuscendo a rieditare i codici della commedia italiana. Il regista non si perde in troppi giri di parole e lavora molto per sintesi: anche le scene in cui si procede per analisi appaiono veloci e comunque sempre esaurienti. Il climax è costante e l'adrenalina è la cifra stilistica di ogni sequenza, anche di quelle più calme, che nascondono sempre qualche trovata geniale – ma, probabilmente, la trovata più geniale è il contrasto tra il livello basso e bieco del mondo descritto e il linguaggio aulico dei laureati che si atteggiano a criminali. La scelta musicale, infine, appare di grande impatto: i brani non sono mai un mero sottofondo, ma sono lì a fare da commento - in modo omogeneo o per contrasto - alle immagini che corrono sullo schermo.



Il regista ha saputo ricondurre un'opera cinematografica all'arte. Spesso si dimentica che uno degli aspetti dell'arte è l'estremizzazione della realtà di cui si parla. L'arte – tutta – è una lente d'ingrandimento sulla realtà, è l'evidenziazione della realtà: non si può fuggire da questo o lo spettatore si ritroverebbe di fronte a immagini caotiche e senza un punto di vista, come avviene nella vita di tutti i giorni. Spesso capita di vedere – e il cinema italiano degli ultimi decenni lo ha fatto sin troppo – film dalle buone sceneggiature ma che non hanno alcun interesse per la fotografia, il montaggio o determinate scelte registiche.

Smetto quando voglio non solo riesce bene in quest'operazione appena descritta. Ma fa di più: riesce a creare una forma coerente col contenuto. Sì, vero: il paradosso è uno dei modi attraverso cui far arte. Ma è anche paradossale la realtà descritta da Sibilia. Paradossale ma vera. Chi si è laureato negli ultimi dieci-quindici anni, chi ha solcato nell'ultimo decennio i corridoi universitari potrà identificarsi perfettamente in quanto narrato. I trentenni di oggi sono la generazione dei sottopagati (quando va bene), dello stage non retribuito, dei contratti in perenne scadenza. Eppure sono tutti laureati. Sono la generazione che sforna centodiecielode con una facilità disarmante e che sa riempire il curriculum di competenze linguistiche e informatiche di ogni sorta. Scrivono tesi e ricerche universitarie di grande spessore. Eppure si ritrovano di fronte a professori universitari chiusi nel loro studio a senso unico e che non sanno comprendere dinamiche nuove e diverse. È tutto un sei molto bravo, ma devo far passare l'altro perché aspetta di entrare da prima di te, non è sufficiente, non ci sono soldi. Molti di questa generazione sanno solo studiare, è vero: ma, se potessero, con lo studio potrebbero rivoluzionare il mondo. E invece no. 

Così, ecco che per arrotondare o supplire a quegli striminziti cinquecento euro di assegno di ricerca, c'è chi fa il benzinaio, chi il lavapiatti, chi cerca di sbarcare il lunario giocando a poker e contando le carte. Il punto è: a chi ha studiato e non ha ciò che merita, cosa rimane? Rimane la coerenza. La coerenza è quell'ultima parte di noi che ci tiene in piedi con dignità e fierezza. La coerenza è non fare il ruffiano col professore di turno – o col datore di lavoro di turno, beninteso – per scavalcare gli altri e per ottenere quello che non spetta. La coerenza è essere umili pur avendo conoscenze sterminate. La coerenza è la propria onestà intellettuale. La coerenza è anche rimanere invisibili se questo ci fa stare a posto con la coscienza. E la coerenza, a volte, diventa insistere, insistere anche se l'obiettivo appare lontano e irraggiungibile, anche se non dovessero esserci risultati: in definitiva, coerenza è fare ciò che si sa fare, anche se lo si fa a bassi livelli o naufragando nell'incomprensione altrui. 



Così, ci si tira su le maniche e si sfrutta ciò che si ha studiato. Ed ecco il paradosso: il chimico crea una droga non iscritta nel registro del Ministero e quindi legale; l'antropologo studia i comportamenti umani per spacciare al meglio nelle discoteche; l'archeologo, col suo insospettabile furgoncino addetto agli scavi, fa il palo e trasporta la droga; l'economista investe e gestisce il guadagno. Il paradosso estremo è quello del finale. Eppure, alla fin fine, non sembra più tanto un paradosso. Perché se andaste a guardare i curriculum dei laureati negli ultimi dieci anni, potreste trovare le più disparate esperienze – quasi da saltimbanchi.

Smetto quando voglio è la giusta voce per questa generazione. Non più quella dei sessantenni-settantenni che inorridiscono perché un trentenne precario e sottopagato non riesce a essere autonomo. No. Finalmente un giovane parla per i giovani con un linguaggio subito riconoscibile ai giovani. Un film che, tra l'altro, suscita grasse risate. Ecco: non ci si piange più neppure addosso. Si ride anche laddove si dovrebbe piangere. Perché, in fondo, questa è una generazione forte. I sette ricercatori del film potranno sembrare impacciati, inutili e senza speranza. Ma nascondono una tempra non comune - "hanno le palle che gli fumano" - e sanno essere tremendamente cool



Commenti

Kris Kelvin ha detto…
Sottoscrivo tutto: un film per i giovani che parla ai giovani (che infatti affollavano la sala quando sono andato a vederlo). Esilarante, cattivissimo, eccessivo eppure tristemente attuale, in più Sceneggiatura di ferro e colonna sonora da urlo. Il film definitivo sul precariato. Davvero una bellissima sorpresa!
GIOCHER ha detto…
Il pezzo sulla coerenza stavo alzandomi in piedi con i lucciconi.
Se il film funziona la metà di come l'hai sviscerato, è già il secondo prodotto valido di un esordiente italiano che vedrei, dopo L'Arbitro di Zucca.


E' che ogni volta che leggo una tua recensione filmica mi viene sempre in mente la famosa frase di Fellini " Io faccio un film.Poi i critici vengono e me lo spiegano" ;)))
Veronica ha detto…
@Kelvin: che bello, siamo già in due nella cineblogosfera ad aver visto questo film. Ho notato che ne parlano poco, ma Sibilia è riuscito a riempire le sale - anche se i vari cinema gli stanno riservando quelle più piccole e passaggi molto brevi. Allora corro a leggerti ;).

@Giocher: so bene che mi reputi esagerata a volte ;). Ma il mio approccio alla critica non è mai critico, sul serio. La mia guida critica/creativa spirituale è Ejzenstejn. Detto questo, il film funziona molto bene, davvero. Kelvin, col suo commento, ha sintetizzato molto bene il lavoro di Sibilia.
GIOCHER ha detto…
Ah, bè..una volta chiaritomi che c'hai i poster di Sergio in camera, 'amo detto tutto! :D
Vele Ivy ha detto…
Quando ho visto il trailer al cinema ho pensato proprio quello che hai scritto tu... "finalmente un film italiano un po' diverso dagli altri"! Mi incuriosisce molto e penso proprio che lo andrò a vedere!