Painting of the Week: Autoritratto con camicia lilla (Egon Schiele, 1914)



Avrei potuto scegliere qualsiasi altro autoritratto di Schiele: ma questo colpisce per una certa freschezza del volto e della pettinatura – l'espressione del viso è di quelle che durano una frazione di secondo, la fronte giovane corrugata, gli occhi chiusi a mostrare palpebre verde-blu in tutta la loro superficie, la bocca estremamente rossa, stretta, che quasi somiglia ad un frutto nel pieno del suo fulgore, un frutto voglioso di vita e che istiga alla vita. I capelli tirati indietro sono quelli del sonno scomposto o quelli che, il pettine, lo vedono raramente o in cui il pettine entra con difficoltà, perché la massa è tanto folta e intricata.

Autoritratto con camicia lilla. È questo il titolo dell'opera e, infatti, Schiele deforma il suo corpo, allungandolo oltremisura, per mettere in evidenza proprio la camicia, di un lilla quasi invisibile, la giacca e i pantaloni, una massa densa e pesante, resa con pennellate folte e intricate come i capelli del nostro pittore.

Eppure il giovane, ventiquattrenne Egon, nel dare importanza alla sua camicia, sottolinea se stesso, il suo viso, la sua espressione: quel capo così divertito-indispettito-corrucciato è il climax dell'intera opera. Che sia la sua espressione allo specchio nel vedersi, all'improvviso, con una camicia lilla? Chi può saperlo. Schiele sperimentava pose ed espressioni che difficilmente assumiamo in maniera voluta. Davanti alla macchina fotografica, ogni posa sperimenteremmo meno che questa, meno che quella col gomito alzato o con i pantaloni calati.

Anzi, occorre correggere il tiro: all'epoca di Schiele nessuno avrebbe assunto quelle pose per un ritratto o per una foto. Oggi, forse, sì: nell'era dei social network, in cui ogni foto si posa sull'altra per creare una massa indistinta di immagini, ci si diverte a fotografarsi in ogni posa, condizione, modo.

E la differenza c'è? Eccome se c'è.

Guardiamo il colore dell'incarnato del giovane, ventiquattrenne Egon: il sottofondo è un verdastro che tanto ricorda il pallore dei cadaveri. Qua e là qualche sussulto di vita, il rosso o il rosa delle labbra e delle nocche. Ma nulla di più. Il giovane, giovanissimo Egon, strappato alla vita solo quattro anni dopo questo autoritratto dalla febbre spagnola, assieme alla moglie e al piccolo che era dentro di lei, non ha mai visto, in sé, vita e vitalità. La sua vitalità, semmai, scaturiva da un profondo senso della morte. Nella vita vedeva la morte – forse come ogni altro artista. Dipingeva i vivi come morti, talvolta come pezzi di carne viventi ma in decomposizione, verdi, gialli, putrescenti. Scavava il corpo fin nei suoi recessi, per trovare l'anima e l'io, ma trovava solo corpo, organi, sangue e sesso. Il sesso, gli occhi e la bocca, gli unici passaggi fisici tra fuori e dentro, tra Io e Altro. Un corpo sviscerato eppure ridotto a semplice segno grafico, una linea nera, un indizio delle membra, l'accenno di un'esistenza che, di sé, lascia solo il nome – e che occorre afferrare con forza perché non si perda nel vento.

Commenti

Vele Ivy ha detto…
Ma che bella anche questa tua veste di critica d'arte!
Brava! Mi hai fatto immergere nel mondo di questo quadro...
Devo ammettere che Schiele è uno dei pochissimi pittori che non amo più di tanto. Si tratta di gusti, ne sono consapevole, perchè ovviamente riconosco la sua bravura e il suo ruolo nella storia dell'arte. Per questi motivi sono stata contentissima di leggere il tuo post, ora conosco un'opera che non avevo mai considerato prima!
curlydevil ha detto…
Quanta capacità di astrazione da sè ci deve essere in chi riesce a immortalarsi in una posa fuggevole!
Veronica ha detto…
Cara Vele... a dir la verità, l'arte occupa le mie giornate forse molto di più del cinema ultimamente. E ancora non capisco perché io ne parli così poco sul blog ^_^. Comprendo benissimo il tuo punto di vista. Ti confesso che Schiele è il mio artista preferito. Lungi da me dare giudizi tanto assoluti, ma in questo caso non posso dire altrimenti. Ricordo che, al liceo, il libro di Storia dell'Arte riportava quattro righe su Schiele. Idem all'università. Ma ho avuto la fortuna di vederlo "dal vivo" durante una esposizione a Roma. Ed è stato un colpo di fulmine!
Fino a poco tempo fa - sto per dire un'eresia, lo so - non apprezzavo particolarmente Michelangelo. Poi, studiandolo e visitando la Cappella Sistina ho avuto un'altra folgorazione. In fondo, credo che sia bellissimo immergersi in qualcosa che poco si ama o che poco si conosce... Aiuta ad aprirsi!
Grazie per il tuo commento, sempre illuminante!
Veronica ha detto…
Cara Curly, che frase folgorante e che pensiero altissimo che lasci qui! Hai perfettamente ragione. Non avevo mai pensato a questo, ma hai colto benissimo qualcosa di indefinibile. Credo che Schiele avrebbe amato le tue parole. I suoi dipinti sono sempre tanto carnali, mentre le sue parole sono sempre estremamente fuggevoli e astratte... Con quello che dici mi hai fatto collegare le due cose. Grazie infinite!!
Maria D'Asaro ha detto…
Credo che ci debba essere quasi un rapporto d'amore tra l'opera d'arte e chi ne ne voglia scrivere criticamente. Solo se facciamo l'amore con l'artista e/o l'opera di cui vogliamo parlare, riusciremo davvero a comprenderla, a penetrarne, in qualche modo. l'essenza.
Grazie, Veronica.
Veronica ha detto…
Parole sante, Maria, che condivido dalla prima all'ultima.
Se non fosse così non potrei scrivere: scrivere di arte o cinema è solo il frutto di questo amore, la gravidanza, il parto.