INLAND EMPIRE - pt. 4

Realtà e cinema si sono sovrapposti e mescolati. La loro mescolanza ha permesso che il personaggio diventasse elemento del reale e l'attore diventasse in tutto e per tutto personaggio della storia. Ciò che è finto si è insinuato nel reale e viceversa. Ma come distinguere ciò che è reale da ciò che è finto?

Ancora una volta Lynch insiste su questo punto. In fondo, anche se il film è composto da storie caratterizzate da diversi livelli di realtà, si tratta pur sempre di un film. La parte “reale” non può essere tanto reale se fa parte di un film. È un circolo chiuso. La finzione è tutta finzione e non se ne può uscire. È una trappola. Sia spaziale che temporale. Proprio per questo, ogni spazio in INLAND EMPIRE viene sempre ripercorso, case diverse e lontane sono unite tra di loro da corridoi impossibili che sfociano in un teatro, nel set, in un cinema, in altre case, in piccole soffitte, in luoghi indecifrabili. Il tempo fa altrettanto: il tempo del film è sempre presente. Non si collega mai a nulla prima e a nulla dopo. Può solo ricominciare da capo (ed è ciò che avviene con la storia del film, che si ripete di continuo).

Se l'attore/personaggio si sente in trappola può cercare di uccidere il proprio burattinaio: è quello che tenta di fare Nikki in una delle scene più inspiegabili del film, quando spara contro il fantasma/Crampy ma non riesce ad ucciderlo. L'effetto delle pallottole sul fantasma non si traduce nell'uccisione dell'uomo ma in una bruciatura sulla pellicola che svela il volto deformato di Nikki. Se si uccide la finzione di cui si fa parte, si uccide se stessi: finito il film, finisce anche il personaggio. Per questo è sempre bene cercare di prolungare la finzione all'infinito, oltre ogni ragionevole tempo cinematografico e/o letterario.




Il fantasma è colui che ha a che vedere con gli animali, che con le mani ipnotizza le persone, che parla in modo non normale; è il prestigiatore, è il demiurgo della finzione, è colui che tiene in cattività i suoi animali. Gli animali da palcoscenico. Tutti i riferimenti al “badare agli animali” sono proprio una metafora di ciò che avviene all'attore che fabbrica sogni, all'attore che è fabbricato da Hollywood e che è ucciso dal cinema. Nikki, sul finire della storia, davanti alle sue amiche, esclama “Sono una puttana!” e la frase è interpretabile secondo diversi livelli di significato: Nikki/Sue si sente una puttana perché ha tradito il marito. Tuttavia anche il mestiere di attore può essere molto simile a quello di una puttana: di film in film l'attore si prostituisce, presta il suo corpo e la sua mente a diversi ruoli, si fa gestire da potenti ruffiani (come il regista o il produttore) e si fa pagare molto bene. L'attore è una puttana d'alto bordo, non c'è che dire.

E ciò è ancora più evidente nella parte finale del film, quella su cui scorrono i titoli di coda. Un mucchio di gente si trova nel salotto di Nikki. Ma non è gente... “normale”. Sono personaggi che hanno preso forma. Sono quei personaggi di cui si è parlato – anche molto velocemente – nel corso del film: c'è la prostituta con la scimmia, c'è la donna con la gamba di legno, c'è Laura Harring, la Rita/Camilla di Mullholland Drive, c'è Nikki/Sue, ci sono le ragazze ballerine. C'è un cowboy, un taglialegna e una ragazza nera che canta in un evidente playback Sinnerman di Nina Simone. Qui si ha l'impressione che la casa sia usata a mo' di scatola magica: è Hollywood la scatola magica; è la testa del regista la scatola magica.

La scelta dell'attore diventa emblematica per fare del personaggio una complessa stratificazione di significati. Per Lynch l'attore diventa quasi emblema della finzione, un modo – un corpo – attraverso il quale gestire l'intricato mondo della narrazione cinematografica: infatti, si scopre con grande colpo di scena che le voci delle conigliette sono proprio quelle di Laura Harring e Naomi Watts, le protagoniste di Mullholland Drive. Per non parlare del ritorno di Justin Theroux e di Laura Dern davanti alla macchina da presa di Lynch.

La ragazza che canta e che fa chiaramente notare che la voce non è la sua ma quella di Nina Simone è un'ulteriore prova del fatto che Lynch sta proponendo la sovrapposizione dei piani tra il personaggio e l'interprete, tra l'originale e la copia, tra la realtà e la finzione.


Qui può accadere tutto. Lynch gioca con la finzione e gioca con noi: non dobbiamo stupirci se alcuni dialoghi o alcune scene appaiano del tutto incomprensibili. Il regista inserisce volutamente qualcosa di incomprensibile, lo fa per disorientare lo spettatore, per fargli perdere ogni certezza nel momento in cui ne ha acquisita qualcuna. Lo fa per dirgli: è il cinema. E alla domanda finale “Perché racconti questa storia?” rimane il vuoto di una risposta che non c'è, se non il “Beeeello!” della donna con la gamba di legno che appare nei titoli di coda. Si racconta una storia perché si racconta una storia. Impero dell'entroterra, dell'interno, vuol dire tutto e non vuol dire niente. Lynch mette queste due parole - INLAND EMPIRE - in bocca ad un attore in una scena che non porta a nulla. L'entroterra è laddove avviene qualcosa di inesplicabile, dove prendono forma storie, inquietudini, sogni. Dove i meccanismi della mente lavorano diversamente dal solito. È il luogo che rimane inesplorato perché è giusto che, di un film, di una storia, della mente, ci sia un ultimo baluardo inviolabile. Si racconta una storia perché si racconta una storia.

Ragionando a fondo sui meccanismi della mente e del cinema Lynch ha rivoluzionato il modo di narrare. La sua antinarrazione porta inevitabilmente a pensare in modo diverso e a vedere ogni cosa nella sua straniante relatività. Lynch usa le regole di genere per distruggerle: solo in questo modo l'accesso ad una dimensione altra è davvero assicurato.


Lynch è uno di quei geni che sanno effettivamente raccontare il mondo altro. Quello che pare vivere di vita propria e che continua a insinuarsi nella nostra testa anche dopo aver spento la tv o essere usciti dal cinema. Quel mondo altro non ha la scritta The End. E neanche la scritta Exit.

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